Esportazione e Made in Italy

Ciascuna azienda italiana ha un grande brand gratuito riconosciuto in tutto il mondo come sinonimo di eccellenza. E’ dovere di ciascuna impresa usarlo nel migliore dei modi, elevandolo con i propri prodotti con la qualità che li deve contraddistinguere. Il Made in Italy è un brand usurpato da molte falsificazioni in tutto l’estero. Nomi di prodotti leggermente modificati e con i colori della nostra bandiera appaiono su tutti gli scaffali dei centri commerciali europei e mondiali pur essendo dei surrogati dei nostri prodotti tutelati da marchio.

Il made in Italy è uno Status Symbol soprattutto per i paesi emergenti ed in particolare per il Medio Oriente e l’est asiatico. Paesi come la Cina, La Russia, gli Emirati Arabi dove sono presenti classi molto abbienti chiedono e comprano, qualsiasi sia il prezzo, prodotti Made in Italy. Ma quali prodotti Made in Italy?

Sappiamo che i nostri prodotti spesso per una delocalizzazione produttiva vengono marcati Made in Italy perché assemblati in Italia o perché costruiti comunque su specifiche qualitative dei brand italiani. Ma qui si scopre che all’estero quando parlano di Made in Italy vogliono il vero Made in Italy a tutti gli effetti, cioè prodotti interamente fatti e confezionati dall’Artigianato Italiano. Per questo motivo alcuni brand famosi stanno riportando la produzione in Italia utilizzando subforniture dell’artigianato locale.

Ma esistono anche aspetti contradditori che devono suscitare un campanello di allarme. Un paese come ad esempio la Cina ancora in espansione nonostante il calo del PIL ha creato una strategia marketing completamente nuova: creare propri brand che si basano sulla realizzazione di prodotti con materie di qualità Made in Italy. Questa che può sembrare una grossa opportunità di fatto crea i presupposti per un negativo rapporto di subfornitura verso i brand cinesi. Le ricadute di questa soluzione sono la perdita dei brand italiani e la svalutazione del brand Made in Italy. Bisogna poi pensare che diventare subfornitori nella catena del valore ci si deve accontentare di magri se non magrissimi guadagni lasciando il “grasso” al produttore finale.

In questo contesto come muoversi?

La rivalutazione dell’artigianato italiano

Negli ultimi anni nella globalizzazione dei mercati si è creata un isterica ricerca dell’abbattimento dei costi per competere con la concorrenza dei nuovi produttori esteri che invadevamo i nostri classici mercati. Dapprima si pensava forse erroneamente che trasferire nei paesi emergenti la produzione fosse la soluzione visto il basso costo della mano d’opera. La Cina, l’India, il Brasile erano inizialmente i Paesi più ambiti dove delocalizzare la produzione.

L’ingresso dei Paesi dell’Est Europeo nell’Unione Europea, fece cambiare strategia di delocalizzazione. Questi paesi offrivano gli stessi vantaggi dei costo del lavoro, toglievano ogni problema di burocrazia, la circolazione delle merci non doveva subire dazi doganali e i costi di trasferimento dei prodotti erano molto meno costosi in tempo e denaro.

Tutto ciò non aveva tenuto conto di una variabile che al momento non sembrava esistesse. Si era talmente presi dalla guerra concorrenziale, che non ci si accorgeva che stavamo producendo una qualità più scarsa e stavamo inquinando il nostro miglior brand : quello del Made in Italy. In questa corsa all’abbattimento dei costi di produzione non si dava più peso a qualcosa di fondamentale, che finalmente cominciamo a capire, e cioè che i nostri prodotti all’estero erano conosciuti per la loro eccellenza perché nascevano dalla creatività e dalla qualità del prodotto italiano. Tutto questo perché il prodotto aveva un valore che difficilmente si trovava nel resto del mondo: l’artigianalità, cioè quella capacità di realizzare ogni prodotto come se fosse l’unico.

La richiesta dell’estero ora è chiara, abbiamo un mercato da aggredire, vasto, del lusso, dello Status Symbol che è disposto a pagare molto il nostro prodotto artigianale.

Questo è il motivo dell’involuzione delle scelte di delocalizzazione che alcuni brand italiani cominciano a fare riportando la produzione in Italia.

Certo mi si può dire che in alcuni casi ciò non sta avvenendo, ma chiaramente quanto finora detto sta parlando di prodotti che non hanno la caratteristica di massa e di consumo. Del resto il Made in Italy è molto riconosciuto all’estero per settori importanti come l’agroalimentare e il food, la moda e in generale il fashion, le auto sportive e per il turismo anche se facciamo di tutto per non sfruttare questo enorme mercato.

In sintesi si può vedere come l’artigianato italiano, fiore all’occhiello del Made in Italy si cominci finalmente a rivalutare.

Esportazione: Le opportunità perse

Citando da fonti Istat:

Nell'ultimo trimestre 2014 la dinamica congiunturale dell'export verso i paesi extra Ue è negativa (-1,0%), in ampia misura per effetto della contrazione delle vendite di beni strumentali (-5,8%). Nello stesso periodo, la lieve flessione congiunturale delle importazioni (-0,2%) è spiegata dall'energia (-3,2%).

Ad agosto 2014 la flessione tendenziale dell'export (-4,1%) riguarda tutti i raggruppamenti principali di beni, a esclusione dell'energia (+5,4%). La diminuzione è particolarmente intensa per i beni di consumo (-6,5%).

Ora la domanda che ci si deve porre è perché nonostante il Made in Italy è così appetibile all’estero nei mercati extraeuropei il dato si rileva in flessione?

A questa domanda si può rispondere con molte cause, tra le quali si possono individuare come principali le seguenti due:

  1.  La tipologia del tessuto imprenditoriale che vede una massiccia presenza di MPMI con pochi fondi da investire per affrontare mercati esteri lontani.
  2. La mancanza di cultura internazionale nelle MPMI che si riflette in una paura ad affrontare un mondo sconosciuto con difficoltà della lingua e con una serie di problemi burocratici da affrontare.

Perdere queste opportunità era già una follia negli anni in cui teneva il mercato interno ed europeo, ora, nella crisi sistemica che stiamo affrontando di cui parte attiva è stata la globalizzazione, diventa un delitto.

Le occasioni per il tessuto produttivo italiano

L’artigianato è essenzialmente formato dalle MPI (Micro Piccole Imprese) che cubano nel 2014 per un 43,9% del PIL (fonte Confartigianato) e corrispondo a circa il 99% delle imprese italiane (fonte ISTAT). Le imprese che occupano meno di 10 dipendenti cubano per il 92%. Questo ci fa capire che il tessuto italiano è principalmente costituito da microimprese le cui dimensioni e potenzialità rispetto alle medie e grandi imprese sono molto limitate.

L’internazionalizzazione di queste piccole imprese è una sfida complessa e difficile viste le dimensioni e la cultura di queste imprese prettamente famigliare, non si deve comunque tralasciare l’eccellenza del prodotto da loro creato, che lo fanno unico e appetibile all’estero. Alla difficoltà ad internazionalizzarsi, queste aziende sono sempre più diventate nel mercato globale subfornitrici di brand molto conosciuti a livello mondiale ed ora rischiano di diventare subfornitori di aziende estere soprattutto dei cosiddetti Paesi emergenti. La subfornitura consente a queste aziende di sopravvivere, ma non certo di strutturarsi per il loro futuro.

L’esportazione del Made in Italy resta comunque una grande occasione, come affrontarla in modo intelligente per non diventare schiavi delle grosse aziende?

La cultura famigliare ha radicato nelle microimprese e nelle piccole e in qualche caso anche nelle medie il concetto di individualismo, la paura di perdere la propria autonomia e la propria azienda. Un concetto ormai superato se si valuta approfonditamente il legame della subfornitura. Essere subfornitori è già di per se non essere autonomi, l’individualità è solo una sensazione lasciata dai grandi gruppi o dai grandi brand per dare maggior tranquillità ai loro fornitori, ma il rapporto è ben più stretto e marcato, chi comanda è il cliente (B2B) sia nella quantità da fornire sia nel prezzo e a volte anche nelle forniture.

Questa riflessione dovrebbe aiutare a far cambiare la cultura e pensare che l’individualismo deve lasciare il passo alla cooperazione e all’aggregazione.

Un progetto di internazionalizzazione che sappia far fronte alle richieste provenienti dall’estero del Made in Italy necessita di aggregare più imprese in una rete che sia in grado di affrontare il mercato estero. Un’aggregazione in rete infatti consente di superare il primo scoglio che è quello finanziario, cioè il capitale di investimento per poter gestire l’ingresso nei mercati esteri attraverso l’aiuto di un export manager o di Società titolate ad aiutare la prima fase di internazionalizzazione che prima di dare risultati richiede mediamente due anni. Una rete infatti oltre a suddividere tra i membri la parte finanziaria può accedere ad opportuni bandi che negli ultimi anni sono diventati frequenti.

Delocalizzazione: la morte del Made in Italy

Sembrerà drastico questo titolo ma come pensare che delocalizzando la produzione si possa credere di salvaguardare il brand Made in Italy all’estero. La delocalizzazione avrà abbassato il costo di produzione ma nel contempo ha creato nei Paesi esteri l’utopia che si potessero italianizzare i loro prodotti semplicemente con i colori di una bandiera, quella italiana, vendendoli truffaldinamente come prodotti italiani.

Si è pensato sbagliando che la scelta di produrre nei Paesi con minor costo del lavoro, non incidesse sul prodotto marcato Made in Italy. Si credeva che fosse più importante la creatività, la progettualità, il design italiani e non la fattura del prodotto, dimenticando che l’univocità riconosciuta nel Made in Italy fosse anche l’eccellenza della produzione artigianale, che dà il giusto valore al prodotto che i mercato stranieri sono disposti a pagare ad un prezzo consistente.

Ricordiamoci quanto detto precedentemente il Made in Italy è uno Status Symbol e quindi deve avere l’univocità come una scarpa fatta su misura con pellame e colore secondo richiesta del cliente od un’automobile configurabile secondo il gusto del cliente (Ferrari insegna). L’errore è stato quello di pensare che si dovesse combattere la concorrenza più sul prezzo che sulla qualità e l’unicità del prodotto.

L’inversione di tendenza che si sta verificando in questi ultimi anni, dove molti brand stanno riportando la produzione presso l’artigianato locale è una prova del mutamento in corso e della volontà di seguire quanto richiesto dal mercato estero.

Esportare: quali i vantaggi

Un progetto di esportazione ha dei vantaggi interessanti che devono essere valutati approfonditamente per decidere di affrontare questa sfida:

Prima di tutto l’utilizzo di un brand del tutto gratuito ma di rilevanza mondiale e con una potenzialità immensa: il Made in Italy.

In secondo luogo il mercato si presenta con forme concorrenziali differenti e meno costrittive. Se si esporta un prodotto che dimostra l’eccellenza italiana, il prezzo non diventa più la variabile fondamentale per restare nel mercato. Il valore del prodotto è riconosciuto dal cliente e quindi viene considerato equo anche un prezzo elevato.

In terzo luogo resta più facile creare un proprio brand perché legato ad un brand già riconosciuto che, come abbiamo già detto, è il Made in Italy.

In quarto luogo si va ad affrontare mercati vasti ed in espansione che consentono di trovare molto più spazio rispetto ai mercati in contrazione della vecchia Europa.

Tutto ciò consente di ripagare i costi di una produzione artigianale e fare buona redditività uscendo dalla situazione di sopravvivenza.

Esportare: quali i problemi

E’ inutile nascondere che ci sono anche dei problemi da affrontare.

Uno dei maggiori problemi che le MPMI devono affrontare è già stato precedentemente sviluppato ed è l’alto costo finanziario iniziale per mettersi sui mercati esteri. Questo problema può essere risolto attraverso l’aggregazione in rete che consente forme di collaborazione e contrattazione con Manager o Società specializzate in Startup di internazionalizzazione e nell’export.

Insieme a questo si delineano problemi legati alle diverse leggi e alla burocrazia insita nell’affrontare questi mercati, ai costi dei dazi doganali, ai costi di trasferimento prodotti, alla capacità di realizzare agenzie commerciali che seguano questi mercati, alle diverse culture che si devono affrontare e non ultimo la lingua per potersi comprendere. Certo l’organizzazione interna si deve adattare ad un nuovo modo di fare business, ma questo tuttavia può essere un vantaggio perché forza ad un’innovazione dell’azienda e dei suoi processi che si rileva sempre più necessaria.

Questi problemi, devono essere però affrontati come indovinelli per trovare una soluzione e non come scogli inaffrontabili che ci portano a decidere di non agire.

La soluzione l’abbiamo già precedentemente detta e resta l’unica soluzione è quella di aggregarsi in rete, perdere la cultura dell’individualismo, credere in un progetto comune di esportazione, credere si possa costruire un brand che faccia riconoscere i prodotti della rete e poco importa se la propria azienda agisce all’interno di un marchio nuovo, l’importante è che ciascun soggetto della rete possa respirare aria nuova e pensare finalmente ad un futuro con ampie prospettive invece che una strenua e a volte inutile sopravvivenza.